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lunedì 11 giugno 2012

"A" come avventura

E si parte. O almeno così sembra. Fino a quando non prenderò posto anche io, su quell'autobus con "22 ragazzi" (che all'arrivo diventeranno 115), non ci crederò che l'ho fatto. Non crederò che mi sono messa di nuovo in gioco. Dopo non so più quanto tempo.
Come sempre, come ogni volta che mi butto a capofitto in una situazione, spero di dare il massimo. E di riceverlo.
Come sempre sbaglio a fare tale riflessione, ad avere un'aspettativa immensa. Che spesso supera la realtà, le persone, i luoghi, i tempi, i momenti, gli attimi, i comportamenti, i silenzi. I minuti passati ad attendere.
Come sempre aspiro a cambiare, a mutare me stessa nel lasso di attesa che intercorre tra una cosa vecchia e una cosa nuova. Tra un prima e un dopo. E forse ci riesco, a cambiare, almeno un po' mi trasformo. Come un bruco che ci mette un po' di tempo, ma alla fine diventa una farfalla. E muove quelle piccole e leggere ali che hanno il sapore di libertà e di infinito.
Si parte. Così pare, e una nuova esperienza s'intravede all'orizzonte. Di una giornata che finisce come tutte le altre ma che ti ha regalato qualcosa in più.


martedì 5 giugno 2012

Nello specchio dei riflessi


...Negli ultimi vent'anni le parole sono state per me gli strumenti del mestiere. Nonostante questo, o forse proprio per questo, le parole non mi piacciono più di tanto. Mi ispirano diffidenza e mi irritano. Forse mi aspetto troppo da loro. Ma è anche possibile che sia vero il contrario, e cioè che attribuisco un potere eccessivo alle note, agli accordi, alle melodie e alle armonie. A volte, mentre sono immerso nella stesura di un romanzo e non riesco a dare senso a una scena, mi siedo al piano e mi metto a improvvisare, e il risultato, per quanto primitivo e imperfetto, mi sembra esprimere in modo più autentico le emozioni che cercavo di trasmettere. Non mi capita mai di trovarmi in una stanza dove c'è un pianoforte senza provare il desiderio di suonarlo. Per me la musica sarà sempre la porta che conduce a mondi immaginati e soprattutto all'universo dei ricordi. Se potesse trasportarci indietro nel tempo vorrei tornare alla stanza che dava sul giardino, nella casa dei miei genitori, per dire a quel ragazzino di otto anni di smetterla di guardare fuori dalla finestra e di tornare a esercitarsi al piano.


Tratto da "Questa notte mi ha aperto gli occhi", di Jonathan Coe

sabato 2 giugno 2012

Un paese che non vuole cambiare

Sfoglio la rassegna stampa delle ultime ore. Il Papa a Milano. L'Emilia tartassata di scosse (e di giornalisti a caccia dell'ultima intervista "strappalacrime"). La disoccupazione giovanile in vertiginosa salita. Napolitano, la sobria parata del 2 giugno e il popolo mediatico in subbuglio. 
La sensazione è quella di leggere una storia che si ripete.
Una storia di cui non siamo protagonisti. Noi in quanto cittadini sulla carta, ma non nell'essenza di uno STATO che decide senza porgere l'orecchio per ascoltare. Figli di una democrazia che abbiamo ereditato, perlomeno le generazioni più giovani. Una democrazia per cui non abbiamo lottato. Per cui non lottiamo neanche oggi.
Giorgio Gaber cantava "Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono". Ci rivedo la chiave della mia generazione in quella seconda strofa. Non so se sentirmi privilegiata nell'essere figlia di Garibaldi e Mazzini. Dei partigiani. Delle donne che per me hanno voluto ed ottenuto le leggi sulla parità dei sessi. Oppure indignata di essere nata in un posto dove quelle leggi, e molte altre ancora, sono rimaste sulla carta, senza essere rispettate, ma calpestate troppe volte. Dove le case, le scuole, le strutture pubbliche, non sono a norma e cascano in un batter di ciglia, collassando in una nuvola di macerie. E dove bisogna dimostrare di essere solo in apparenza superiore rispetto a un altro, in una società borghese e consumistica.
Senza il coraggio di cambiare non si va da nessuna parte. Il coraggio di avere un tetto solido sulla testa, un cuore che batte per le passioni, un sogno all'orizzonte.